Una produzione Fondazione Musica per Roma
E’ stato il primo, grande, processo mediatico dell’Italia del dopoguerra. E nasconde un mistero che resiste da oltre mezzo secolo, perché oggi, con l’avvento delle moderne tecniche investigative e delle intercettazioni, quel processo avrebbe avuto un esito diverso. La vicenda ebbe inizio l’undici settembre ’58, quando nella sua casa romana di via Monaci veniva uccisa Maria Martirano, moglie di Giovanni Fenaroli, un imprenditore milanese che navigava in cattive acque. Dopo due mesi, i primi arresti: il marito della vittima, poi il suo segretario, Egidio Sacchi, e Raoul Ghiani, un elettrotecnico milanese fino a quel momento estraneo alla vicenda. L'accusa sostenne che l’omicidio era stato organizzato dal marito per incassare 150 milioni di una assicurazione stipulata poche settimane prima e che Ghiani era l’esecutore materiale. Il processo ipnotizzò l’Italia. Il giorno della sentenza, che condannò Fenaroli e Ghiani all’ergastolo, davanti al palazzaccio di piazza Cavour, sede del Tribunale di Roma, c’erano ventimila persone in attesa. Ed era un pubblico diviso tra innocentisti e colpevolisti, perché erano in molti a pensare che la ricostruzione dell’accusa non fosse realistica. Che Ghiani non avesse davvero ordinato di uccidere la moglie. Ma che piuttosto, dietro quel delitto, ci fossero le responsabilità di uomini potenti, legati alla politica e ai partiti, in grado di esercitare – per la prima volta nella storia repubblicana - un potere di condizionamento sulla magistratura. Un potere così forte da creare dal nulla un paio di “imputati perfetti” da offrire all’opinione pubblica come capri espiatori per un delitto che non avevano commesso.