Il Caso Artusi

Lunedì 31 Gennaio 2005
h. 21:00
Il Caso Artusi

Musica per Roma in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi

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1891 – l’anno di Myricae, l’anno dell’enciclica Rerum Novarum, l’anno che vede la nascita del Partito Socialista e di «Critica Sociale», l’anno in cui per la prima volta il proletariato celebra la festa del lavoro –, Pellegrino Artusi, ricco scapolo dagli enormi «favoriti» leopoldini, dal tratto gentile e un po’ distaccato, di impeccabile eleganza protocollare un tantino demodé nella sua eterna tuba e finanziera, nato a Forlimpopoli nel 1820 e trapiantato a Firenze dal 1852, dopo due erudite prove filologiche (la Vita di Ugo Foscolo accompagnata dalle Note al carme dei Sepolcri e dalla Ristampa del Viaggio sentimentale di Yorick e le Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti) dà alle stampe, a proprie spese, la sua ultima fatica letteraria: "La scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene. Manuale pratico per le famiglie." In prima edizione il libro esce quasi in sordina: appena mille copie. Francesco Trevisan, professore di belle lettere al liceo Scipione Maffei di Verona nonché dotto amico dell’Artusi sentenzia: «Questo è un libro che avrà poco esito». Ma nel volgere di poco tempo le edizioni si susseguono, portando a cinquantaduemila gli esemplari del trattato venduti: in breve è il trionfo.
In tempi in cui i mass media sono ben lontani dal far sentire la loro irresistibile azione (solo d’Annunzio pare saper mettere in pratica le tecniche per manipolare le masse), l’arguto libretto tosco-romagnolo dell’amabile banchiere di Piazza d’Azeglio (tutta Italia conosce il suo indirizzo, perché il volume può essere richiesto personalmente all’autore) s’insinua bonario e sornione in moltissime case di tutte le regioni del paese. Mai occulta persuasione fu più semplice e umana, mai prodotto in vendita conobbe un livello tanto elevato di buon gusto e cultura…
Come ha scritto Manganelli: «Nell’Ottocento l’Italia era una a livello dei francobolli e dei carabinieri. Fu allora che apparve l’Artusi. Lo spirito del tempo gli affidò un compito cui attese con umiltà e ostinata pazienza. Per oltre vent’anni raccolse le ricette di tutte le cucine italiane; mescolò assieme tutti i riti reciprocamente esotici, la polenta e la pasta con le sarde. Entrò da laico nel corpo mistico del mangiare collettivo italiano e al posto della matriarca disegnò l’immagine della massaia casalinga e borghese, indulgente e blanda signora di mezz’età. Strappando le vivande ai loro luoghi d’origine, disponendole in bell’ordine in un’unica classificazione per generi, egli eseguì l’operazione preliminare alla nascita di una cucina nazionale; e in questo modo agiva, da inconsapevole psicologo, sulla pasta segreta dell’anima nazionale, la agglomerava in un’unica materia ricca, densa; trascriveva le tradizioni gastronomiche locali in un unico codice, un corpus, un catalogo. Questa impresa non gli sarebbe mai riuscita, se non lo avesse assistito la grazia del linguaggio; a Firenze s’era intoscanito, e aveva preso qualche vezzo locale, insistito, da immigrato; ma aveva imparato anche un certo modo di rivolgersi al lettore; infatti, non compilò ricette imperative: ma le raccontò. A questo modo si guadagnò il cuore delle massaie, cui non pareva vero di trovarsi accanto ai fornelli un gentiluomo tanto educato e benevolo. E così egli invase il centro donnesco, materno dell’inconscio italiano».
Inseguendo il nostro ambiguo autore tra le pieghe delle sue mille ricette, nel tentativo di penetrare l’enigma del suo impenetrabile sorriso, tra ricordi di pantagrueliche abbuffate ed ammicchi alle mode del fitness, Il caso Artusi non cerca così soltanto di decifrare l’eterodosso credo del nostro Cuoco-letterato – un’edonistica religione della buona forchetta pronta però a rivelare, dietro la sua austera adesione di facciata ad un gusto tutto biedermeier, vittoriano (anzi umbertino) e sconsolatamente piccolo borghese, una rivoluzionaria inclinazione a rivendicare i diritti del corpo: «due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la propagazione della specie», leggiamo infatti nell’esergo dell’opera –, ma finisce pure col mettere a nudo la più genuina e casareccia essenza dei nostri costumi nazionali, tra sogni di grandezza dell’Italia sabauda, fughe nei paradisi (elettro)domestico-culinari del boom degli anni sessanta ed incursioni nelle utopie new age della raffinata e globalizzata nouvelle cuisine di fine millennio. (Claudio Longhi)